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IL RE NON E' NUDO, VESTE SLAM JAM


Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
 

Cosa è più imbarazzante per il re:

essere nudo o vestirsi come il suo popolo?


Un re nudo è il protagonista di un racconto di Hans Christian Andersen, che narra di un re che compare svestito davanti al suo popolo a causa di un sarto burlone.

Nessuno tra i presenti ha il coraggio di parlare finché un bambino quando lo vede passare esclama ingenuamente: «ma il re è nudo!».


‘Re Nudo’ è anche una rivista, che prende il nome proprio dal racconto, nata negli anni ‘60 per smascherare tutte le incongruenze della società, o meglio per smascherare i re, all’epoca politici democristiani, perbenisti, industriali borghesi, professori blasonati (...).


Ma chi sono i re di oggi e soprattutto come si vestono?

Dopo politici in felpa e con magliette delle forze dell’ordine, CEO di grandi compagnie in t-shirt, capi di stato con cappellini da football,

“i grandi del nostro tempo” hanno cambiato il loro vestiario avvicinandosi sempre di più alla loro massa di riferimento, in modo dozzinale spesso, ma che sembra funzionare.

L’imprenditore si veste da operaio? O semplicemente si è persa ogni

differenziazione di vestiario? 

Sparita la differenza nei vestiti, resta intatta quella nei privilegi: sociale ed

economica.

Chiunque viva qui - l’Occidente politicamente esteso, e ancora di più le città, una in particolare, Milano - chiunque lavori in quello che un tempo si chiamava settore terziario, quello che i miei nonni non conoscevano e a cui i miei genitori erano stupiti di appartenere, nello specifico quello del mordi e fuggi, dove tutto era in consegna  per ieri (industria creativa, moda, design, architettura e affini), sa che il primo giorno di lavoro potresti rivolgerti a uno stagista pensando sia il tuo capo.


Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
 

Non c’è una diversificazione nell’abbigliamento (e nemmeno nel linguaggio a dire il vero) , anzi, c’è questa voglia di varsity jacket (anche se l’università è un ricordo lontano, lontanissimo) e felpa con cappuccio (pure le manifestazioni, se ci sono state, sono ormai, per loro, storia del secolo scorso) soprattutto da parte di chi ha posizioni di rilievo, con le dovute differenze: lo stagista di prima ha lo stesso stile ma i suoi capi costano un quarto di quelli del capo. Talvolta. Perché chi svolge questo tipo di impiego, proviene da una condizione socioeconomica privilegiata, la stessa che gli permette di frequentare scuole da decine di migliaia di euro che garantiscono un lavoro sottopagato.

Da questo ‘egualitarismo’ apparente, deriva un ibridismo tra il dentro l’ufficio e il fuori, e quindi tra lavoro e vita privata e quindi, ancora, tra orario di lavoro e orario per vivere.


Alla fine siamo liberi di indossare al lavoro quello che ci pare ma non siamo liberi di spogliarci dal lavoro quando usciamo a prendere una birra, siamo a casa, andiamo a fare la spesa.

Parlo di una realtà ben definita, l’unica, lavorativamente parlando che conosco: le agenzie creative milanesi. Ambiente giovane, dinamico, cool, fresco, divertente - professionale non lo si scrive più negli annunci su Linkedin - ed è qui, tra Porta Venezia e il Naviglio, che si consuma la sottile linea tra le vite, ‘vita privata’ e ‘vita lavorativa’. 


Come se il lavoro non fosse più una parte della vita stessa ma qualcosa che l’ha divorata, facendo nascere il bisogno necessario di averne una nuova, quella che chiamiamo “privata”, ma che di privato non ha più davvero nulla.


Neppure i vestiti che compriamo e rivendiamo subito, senza aver avuto nemmeno la possibilità di stufarci di indossarli, di macchiarli del nostro vino preferito o di sugo in una di quelle (rare) domeniche felici.

Non rimpiangiamo certo il tempo in cui c’era il completo per tutta la settimana e il jeans per il weekend, ma questa cosa, a modo suo, delineava i tempi: il fine settimana c’era l’ozio, la pulizia della casa, la spesa al sabato e per alcuni il teatro, il golf, la cena a casa di amici di amici.


Ora invece si lavora anche il weekend ma con la stessa felpa del mercoledì.

Così è lontano il tempo in cui si scendeva in piazza anche solo perché ci si rendeva conto che la disparità economica tra borghese e proletario si poteva riassumere nelle scarpe più lucide e nuove il sabato sera in discoteca:


“credevo che la cosa più importante fossero le scarpe a punta e i maglioni siglati, ma poi quando andavo a ballare c’era sempre qualcuno che aveva le scarpe più lucide, gli abiti più eleganti di me. Il denaro era la cosa più importante”

(Rose e Pistole, Stefano Cappellini, Sperling&Kupfer, 2007)


E oggi, dove la differenza di abbigliamento non c’è più, in che modo ci si riconosce come massa?

Come si rivendicano i propri diritti? Il portare, da parte del capo e dello stagista, la stessa felpa ma con logo diverso, non fa sussultare, è una condizione data. Alla fine se il modello è lo stessa poco importa se la differenza di prezzo e quindi la capacità di acquisto dell’uno e dell’altro sia abissale.

Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
 

La massificazione del costume tra chi sta su e chi è l’ultimo anello di questa catena di montaggio digitale conduce, inesorabilmente, all’annullamento della percezione che il lavoro è qualcosa di imposto, dalla società, dalle nostre ambizioni, certo, o semplicemente dalla nostra condizione economica: qualcosa a cui si da, per la quale alle volte ci si immola, e si deve allo stesso modo pretendere.


Ma lo dimentichiamo in fretta perché ci sentiamo più liberi dei nostri genitori,

felicemente intrappolati in una vita di lavoro e provincia, abbiamo sicuramente più libertà dei nostri coetanei assunti in banca o in agenzie assicurative dove il dress code è obbligatorio e quando li vediamo al bar vicino all’ufficio commentiamo con spocchia con un «io non lo farei mai».

Mi chiedo se loro, quando vedono noi, allo stesso bar, vestiti come i loro nipoti adolescenti ma con le occhiaie fino a terra e il Mac perennemente sotto il braccio non pensino la stessa cosa - viste le paghe da miseria, per giunta.

Perché, in fondo, se tutto quello che ci circonda sembra essere un’isola felice di “parità e uguaglianza” allora restiamo in ufficio, anche più del dovuto e tutta la nostra vita, quella senza distinzioni, si svolgerà sempre lì. Il luogo di lavoro si trasforma in una classe del liceo dove alla fine dell’ora c’è l’intervallo,

birrette da consumarsi a chiusura dell’orario preventivato di lavoro ma che ti pregano, lì fredde da frigo in una Milano a Luglio, di fermarti quell’oretta in più davanti a un computer.

Ci sono il canestro e il ping pong, che sembrano dirti che la tua voglia ludica possa vivere all’interno sempre di quelle stesse mura.

E così vale per il vestiario, tra pacchi che arrivano a cadenza regolare ogni mezz’ora e brevi sfilate di quello che hai appena acquistato da Vinted o, per chi se la passa meglio, Vestiaire Collective.


Non è un problema di abbigliamento, di felpa, di pantalone o di sneaker, è un problema di simboli, che forse non saremo, a breve, più in grado di decifrare: alla collettivizzazione del vestiario non corrisponde in alcun modo una collettivizzazione del bene comune, a questa uguaglianza delle felpe non corrisponde un'uguaglianza sociale.


Alla fine, lo stagista rimarrà sottopagato, lo stagista non potrà parlare in riunione, lo stagista potrà sì vestirsi come vuole ma non potrà decidere indipendentemente del proprio lavoro e nemmeno gestirlo come meglio crede.


E quando quello stesso stagista crescerà professionalmente e potrà aprirsi la ‘sua cosa’ porterà avanti le stesse dinamiche, senza mai scrollarsi di dosso, oltre alla felpa, quella volontà di emergere sempre di più, di lavorare per il gusto di lavorare forse perché, in tutto quel tempo tra lo stage e la prima seniority, ogni minuto, ambizione, amore, amicizia si è consumata lì, nella ‘vita del lavoro’.

Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
Photography by Peter Funch - 42nd and Vanderbilt (2007/2016)
 

IL RE NON E' NUDO, VESTE SLAM JAM.

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