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LA CASA

Aggiornamento: 3 ore fa



La Casa rappresenta da sempre uno degli archetipi fondamentali per l’essere umano, non solo come spazio fisico, ma come struttura profonda che definisce il nostro essere nel mondo. Rappresenta il luogo da cui si parte o in cui si ritorna, uno spazio che accompagna la nostra vita, segnando le fasi di cambiamento e di ritorno. 


È il "luogo del riconoscimento", sia per l'individuo che per la comunità, l'ambiente che raccoglie, protegge e definisce le relazioni sociali, culturali e affettive.


La casa è la proiezione di ciò che l'individuo e la collettività considerano "appartenenza."

Non è solo il luogo che accoglie, ma quello simbolico che nutre i legami emotivi necessari alla nostra evoluzione.



Dal punto di vista psicologico, la casa è il contenitore per eccellenza della nostra identità, che ricrea la struttura affettiva fondamentale alla quale il soggetto ambisce. Essa ci definisce e ci protegge dalle insicurezze dell’esistenza; quando pensiamo alla nostra casa, non vediamo solo un edificio, ma un rifugio sicuro, simile ad un "involucro" psichico che ci consente di sentirci al sicuro con noi stessi e con l’Altro, dove i legami familiari e affettivi trovano il loro posto.


 

In questo spazio in cui sperimentiamo il legame di attaccamento, la sua importanza va ben oltre il semplice rifugio fisico: è qui che si costruisce la nostra identità sociale. Ogni casa è il frutto di una cultura, di una storia e di un ordine sociale che si riflette nelle strutture abitative, nelle abitudini, nei rituali domestici e nelle tradizioni. La casa non è mai un concetto neutro: è un oggetto che assume significato in base alla posizione sociale dell'individuo, ai suoi legami culturali e alla sua storia personale. Infine, rappresenta la metafora della nostra "esistenza radicata."


In filosofia, il concetto di casa è stato esplorato come il luogo dove l'individuo trova il senso della propria identità e il proprio posto nel mondo: Heidegger parlava della casa come del “luogo dell’essere”, un luogo che non è solo fisico, ma che si intreccia con le nostre emozioni, i pensieri e la coscienza. È la condizione che permette all’individuo di sentirsi esistente nel mondo, di abitare la propria vita con un senso di continuità e di stabilità. Ma cosa accade quando questa struttura così fondamentale viene spezzata? Quando l’individuo è costretto a lasciare la propria casa non per scelta, ma per necessità?

Nel contesto dell’emigrazione, la Casa assume una dimensione ancora più complessa, poiché la sua perdita diventa un trauma profondo che segna l’individuo in modo indelebile. Quando un migrante lascia il proprio paese, non si limita a fare una scelta geografica, ma affronta una vera e propria separazione da ciò che definisce la propria identità.



Emigrare non è solo un viaggio fisico, ma un'esperienza psicologica ed emotiva che coinvolge il lutto per la perdita della casa e di tutto ciò che essa rappresenta: la cultura, la famiglia, le radici e il senso di appartenenza.



Dal punto di vista psicologico, la separazione dalla propria casa comporta un'esperienza di disorientamento e di perdita; il lutto si manifesta quando l'individuo è costretto a confrontarsi con la "inesorabilità della perdita". 


La casa, in questo caso, non è solo un oggetto fisico, ma un simbolo che condensa affetti, ricordi, legami significativi, una rappresentazione del mondo conosciuto; perdere questa connessione significa affrontare un profondo senso di vuoto. Il lutto migratorio è considerato un lutto multiplo, poichè non si tratta solo della perdita del luogo fisico, ma anche di legami sociali, culturali e affettivi. Il migrante vive una frattura con la propria identità originaria lasciando dietro di sé un vuoto difficile da colmare; non appartiene più al tessuto sociale che un tempo lo accoglieva, ma è anche rifiutato dal nuovo contesto, dove fatica a trovare un posto. La nostalgia diventa quindi uno degli aspetti più evidenti della condizione migrante: il desiderio di tornare si fa costante, e la casa diventa non solo un luogo fisico, ma un simbolo irraggiungibile di stabilità, sicurezza e identità. In molti casi, il migrante diventa una "non-identità", una figura che non trova appartenenza né nel luogo di origine né in quello di destinazione. Non è né cittadino né straniero, né parte dello stesso né parte dell’altro: è un essere “atopos", cioè fuori luogo, intrappolato in una continua condizione di incertezza e disorientamento. 



 

Questo stato di doppia assenza crea un tentativo perenne di ricongiungersi con un passato che non è più accessibile, con un luogo che è ormai solo un ricordo, con un’intera esperienza di vita che non è più possibile rivivere.


Il migrante è dunque sospeso in una geografia incerta, tra il luogo che ha lasciato e quello che non gli appartiene del tutto. Il suo essere si muove in un territorio di confine, né cittadino né straniero, né completamente parte dello Stesso né interamente dell’Altro. Un’esistenza fuori luogo, atopos appunto, dove l’appartenenza si sgretola e si ricostruisce continuamente. Doppiamente assente e doppiamente escluso, il migrante vive nel paradosso dell’esilio: ovunque vada, è Altrove. Il senso di “essere fuori” è una delle percezioni più comuni tra chi affronta l’esperienza migratoria, questa condizione riflette un contatto diretto con un sé in trasformazione, un “io modificato” che incarna la logica del “cambiare per non cambiare”: si tratta di modificare alcuni aspetti della propria identità per sentire di avere il controllo sulla situazione e per illudersi di una continuità rassicurante, evitando il rischio dell’incontro con l’imprevisto e con l’Altro.  In questo stato, il soggetto fatica a distinguere l’interno dall’esterno, il conscio dall’inconscio, e la barriera che li separa diventa instabile, lasciando emergere contenuti psichici non elaborati. Il processo identitario, in questo modo, si frammenta: manca la continuità che normalmente garantisce un senso stabile e sano del Sé: l’identità del migrante si fa quindi  fragile, sospesa, precaria.


Proprio per le ragioni citate in precedenza ogni migrazione rappresenta un trauma: spezza il legame profondo tra la realtà interiorizzata e quella culturale esterna, produce una destrutturazione dell’identità soggettiva, esponendo il migrante a un’esperienza disumanizzante. Il trauma della migrazione non è solo legato al viaggio fisico, ma condiziona in modo persistente la rappresentazione psichica di sé e del mondo, influenzando la vita presente e futura attraverso il ricordo di esperienze dolorose.


Il disorientamento, la perdita di riferimenti culturali stabili e la frattura con il contesto d’origine generano uno shock culturale: il soggetto si trova improvvisamente immerso in un contesto nuovo, spesso ostile, che mina le sue certezze e mette in crisi la sua coerenza identitaria. Questo tipo di trauma, legato alla dimensione culturale e relazionale, prende il nome di “trauma migratorio”, dove avviene un passaggio dal “Vero Sé al Falso Sé”: l’identità autentica, spontanea, viene soffocata da una struttura adattiva che cerca di rispondere alle aspettative dell’ambiente esterno, ma al prezzo della propria integrità. Questo spiega perché i soggetti esposti a gravi eventi traumatici, come quelli legati alla migrazione forzata, sviluppano più facilmente una vulnerabilità psichica. La sofferenza psichica, unita al trauma migratorio, può dare origine a disturbi specifici, tra cui il più diffuso è il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD). L’abbandono forzato del proprio Paese, i lutti, le perdite multiple e le violenze subite contribuiscono a determinare un evento profondamente traumatizzante; uno dei sintomi principali è il numbing, ovvero un distacco affettivo ed emozionale: il soggetto sperimenta un senso di indifferenza, di estraneità, come se osservasse la propria vita da fuori. Non riesce più a “sentirsi nella propria pelle”: il corpo diventa guscio, la mente rifugio, l’identità sospensione. In un contesto simile, la qualità dell'accoglienza nei Paesi di arrivo gioca un ruolo cruciale nel favorire o ostacolare i percorsi di ricostruzione identitaria. Tuttavia, le attuali misure di contenimento dell’immigrazione adottate dal governo italiano, così come da numerosi Paesi europei, sembrano aggravare questa condizione di sospensione e invisibilità, rendendo evidente una dolorosa verità: non tutti gli esseri umani hanno lo stesso diritto al soccorso, alla protezione, all’ascolto.



 

L’Italia sta vivendo un momento di profonda trasformazione del suo sistema di accoglienza e inclusione rivolto a richiedenti asilo e migranti. Ma questo mutamento, invece di evolvere verso l’integrazione, si è tradotto in un progressivo irrigidimento delle misure adottate, compromettendo il già fragile equilibrio psichico e sociale di chi arriva. Questa ossessione securitaria influenzata da altri paesi Europei ha portato anche l’Italia il diffondersi di un  sentimento ostile, scegliendo di adottare una politica di esclusione, causando la marginalizzazione di un’ampia parte di richiedenti asilo: il soggetto che approderà non si sentirà a proprio agio, verrà stigmatizzato ed etichettato come straniero verso la società accogliente. La presenza dell’immigrato, infatti, produrrà costantemente una presenza segnata dall’incompletezza e colpevolezza in sé stessa, verrà designato come ‘fuori posto’ in tutti i sensi del termine. 


Nel sistema italiano è assente una legge che regolamenti in maniera sicura il fenomeno degli sbarchi: il Mediterraneo centrale presenta una serie di sfide particolari in termini di capacità di salvataggio. Lo sbarco delle persone soccorse in un “porto sicuro”, e quindi l'intera fase della pre-accoglienza, è parte integrante di ogni operazione di salvataggio; tale luogo dovrebbe essere considerato almeno come uno spazio in cui la vita dei sopravvissuti non sia più minacciata, in cui i loro bisogni umani fondamentali possano essere soddisfatti, e da cui si possano raggiungere degli accordi per consentire ai sopravvissuti di proseguire verso la propria destinazione.


La pre-accoglienza rappresenta l’assegnazione di un luogo sicuro per lo sbarco delle persone soccorse, e dovrebbe essere garantita nel più breve tempo ragionevolmente possibile. Tuttavia, nella regione mediterranea, lo sbarco viene spesso ritardato, con gravi conseguenze sia sul piano fisico che mentale. I migranti, già provati da violenze, abusi e sofferenze nel percorso migratorio, subiscono un ulteriore trauma: l’attesa in mare, la sospensione, l’incertezza del destino. 

Ma non è solo il sistema dell’accoglienza che dovrebbe essere messo in discussione: è l’intera società contemporanea a faticare nell’elaborare i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni. In una cultura dominata dal consumismo, dall’individualismo e dalla spinta omologante della globalizzazione, la convivenza con l’alterità diventa una sfida ed il migrante rischia di essere ulteriormente marginalizzato.


L’ibridismo culturale, vissuto senza strumenti adeguati, può generare confusione, perdita di riferimenti, crisi identitarie; e così a loro volta l’isolamento, la frammentazione l’emarginazione non sono più solo condizioni sociali: diventano vissuti interiori, lenti attraverso cui il soggetto percepisce sé stesso e il mondo. 

Per questo proteggere i diritti umani e avere efficaci politiche di gestione della migrazione non sono obiettivi in competizione. Piuttosto, la protezione dei diritti umani dovrebbe essere al centro di ogni politica migratoria legittima ed efficace. In nessun altro luogo questa necessità risulta più chiara che nel Mediterraneo, dove l’attuale approccio degli Stati membri non è finora riuscito a prevenire inutili perdite di vite umane, e ha reso la situazione di coloro che sono stati salvati imprevedibile e precaria.


Le sfide sono indubbiamente di ampia portata, ma la necessità di cambiare rotta, per la salvaguardia della vita umana e della dignità, è ancora più importante; il salvataggio dei migranti è stato strumentalizzato come un attacco alla sicurezza e alla sovranità nazionale: chi chiude porti e tiene persone inermi bloccate a bordo per giorni, minorenni compresi, si presenta come difensore della patria: come se fosse in gioco la sicurezza della nazione rispetto a un’invasione nemica.


Bisogna comprendere che su quei barconi alla deriva in mezzo al Mediterraneo ci sono delle persone in fuga dalla disperazione, in cerca di una speranza, non criminali, nemici o invasori. Persone che hanno venduto tutti i loro beni per pagare quel viaggio e per inseguire un sogno: una vita migliore.  



 

In questo scenario complesso e doloroso, il film Fuocoammare di Gianfranco Rosi rappresenta molto più di un semplice documentario: è una narrazione cruda ma poetica al tempo stesso, che ci mette davanti alla verità nuda e spesso ignorata del dramma migratorio. Ambientato a Lampedusa (isola simbolo della frontiera tra chi resta e chi arriva, tra chi ha una casa e chi l’ha perduta), il film ci conduce in uno spazio sospeso, dove la Casa non è soltanto il luogo da cui si parte, ma anche quello che si cerca disperatamente, spesso senza mai trovarlo. La casa, in Fuocoammare, è ciò che manca. Nel contrasto tra la quotidianità di Samuele, giovane abitante dell’isola, e l’agonia dei migranti soccorsi in mare, si dispiega il significato profondo dell’appartenenza: da un lato, chi vive radicato nella propria terra, protetto dalla continuità e dalla memoria; dall’altro, chi ha dovuto lasciarsi tutto alle spalle, perdendo la casa, la famiglia, la lingua, l’identità. Fuocoammare non mostra solo la traversata, ma il silenzio che segue lo sbarco, il vuoto dell’attesa ma soprattutto l’assenza di un futuro certo. È l’eco di una stabilità perduta, è la speranza di una nuova possibilità, ma anche il simbolo di una responsabilità collettiva che troppo spesso viene ignorata. 

Salvare vite umane non dovrebbe essere oggetto di dibattito politico o ideologico: è una scelta, ogni volta. 

Lasciarle morire in mare è anch’essa una scelta. 

Scegliere chi può vivere e chi no, chi ha diritto all'accoglienza e chi deve restare ai margini, è il riflesso di una società che ha smarrito il senso della propria umanità.

Il Mediterraneo, da culla di civiltà, si è trasformato in un confine letale, in un cimitero liquido, eppure ogni vita persa rappresenta una casa che non sarà mai ritrovata, una storia che non potrà più essere raccontata. Ogni migrante porta con sé un mondo che chiede di essere accolto, riconosciuto, ascoltato. Per questo, la vera sfida non è solo garantire accoglienza, ma restituire dignità. E allora, forse, la Casa non è solo un luogo da cui si parte o in cui si ritorna, ma un orizzonte etico; la possibilità di sentirsi riconosciuti in quanto esseri umani in uno spazio, reale o simbolico, in cui si è protetti, ma soprattutto ascoltati. 

Per chi fugge, la Casa è il diritto di immaginare un futuro. E oggi più che mai, garantirlo significa riconoscere in ogni migrante non uno straniero, ma un essere umano che cerca un luogo da abitare.



 

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