LUNGO, CATTIVO, FRATELLO
- Federico Grassi
- 8 ore fa
- Tempo di lettura: 12 min

Una bottiglia rossa scintillava sul selciato. La notai subito: immobile, distesa sul fianco destro come se aspettasse qualcuno. Poi si mosse. Forse il soffio del vento- pensai- o il vibrare distante di un treno sotto terra. In ogni caso, cominciò a rotolare. Lenta, continua. Sembrava sicura: chiamata da qualcosa che non potevo udire. Questi e altri pensieri mi attraversavano la mente tornando a casa quel pomeriggio. Probabilmente ero solo stanco. Oppure iniziavo a smuovermi.
Il computer spento, il cervello più allentato, quasi leggero: la settimana lavorativa era finita. Camminavo fuori dall’ufficio e mi sentivo addosso l’urgenza automatica del venerdì sera. Quando il corpo si ridesta nella fame di vino, di voci, di risate con gli amici di una vita. In quegli attimi Roma mi appariva quasi crudele, portatrice di una bellezza troppo lontana per preoccuparsi di chi la attraversa. Di chi ricomincia a sentire. L’aria, fredda e secca, mi tagliava la faccia, ricordandomi a forza di essere vivo: mi preparai, presi la moto e andai a Trastevere.
Il cappotto di Cobra — sempre quello, lungo e bellissimo — stava appeso alla sedia come un altro invitato. C’erano tutti: Federico, Bruno, Jay ed altri. Parlavano. Ridevano. “Me ne compro uno uguale” dissi a Cobra, e lui mi versò del vino, senza rispondere niente. La cena andò come doveva andare. Pasta, vino, amari. Battute. Gesti giusti al momento giusto: una liturgia familiare. Qualcuno rise forte, il coltello batté sul piatto, il tintinnio dei bicchieri annunciò un nuovo brindisi. Poi sembrò che tutto si fermasse. Non saprei dire quando, ma mi estraniai. Forse mentre alzavo il bicchiere. O anche prima. Ad ogni modo sentivo qualcosa; non forte, non chiaro: un’ansia leggera che saliva, quasi un ricordo che non riusciva a venire a galla. Provai a distrarmi. Vino, amari, vino. Restavo però agganciato a una sensazione che si faceva lentamente bisogno. Bevevo non per stare meglio. Ma per stare.
Quando ripresi la moto ero alticcio. I sanpietrini luccicavano sotto la luce gialla del Rione XIII e io ripensai a quando Roma sembrava tutta nostra. A quanto le cose fossero cambiate. Lavoravo undici ore al giorno in un posto che impressionava solo a nominarlo. Slide, meeting, mail: tutto filava. Avevo ventotto anni, uno stipendio abbondante, una scrivania con vista, una vita che stava in piedi da sola. Dritta, ben delineata e piena di impegni. Girai a destra, sfiorai tre macchine e mi infilai nel Lungotevere: ora sentivo l’asfalto scapparmi sotto i piedi, i pensieri assediarmi la testa e, alla mia sinistra, il fiume – nero- che proseguiva il suo corso. Eppure, nella velocità sembravo immobile: avevo ancora quella roba addosso. La stessa di prima, ma sempre più vicina. Poi, d’un colpo, vidi gli alberi piegarsi sopra di me e il viale parve chiudersi, come un grande tunnel pronto ad inghiottirmi. Non ero io ad accelerare, ma Roma a tirarmi dentro. Frenai di colpo. Sterzai. Scacciai i pensieri. Imboccai la via contromano e lasciai la moto di sbieco, quasi scivolando. Ero arrivato a Via dei Coronari e speravo che tutta la mia confusione svanisse presto.
Tuttavia, quanto più me ne stavo in silenzio tanto più mi assalivano nuove inquietudini: non potevo sfuggire al disagio che avevo nelle ossa, non ero capace di mettertelo a tacere, né tantomeno di dargli un senso. Quella leggerezza che avevo sentito ore prima di fronte all’ufficio appariva adesso in veste di feroce agitazione. Una energia nervosa che si irradiava da punti precisi del mio corpo —il petto, le mani, la nuca — si accendeva e si ritraeva in ondate lente ma continue. Ero in piazza con gli altri - e mi sentivo intrappolato. Inchiodato a me stesso senza possibilità di fuga, come un detenuto chiuso a chiave dentro il suo corpo. Uno che ha persino dimenticato il reato commesso. Tentavo battute, mi accendevo una sigaretta dopo l'altra, proponevo nuove mete in quel girovagare ormai diventato infernale. Poi, quando ad un tratto Federico disse: “Qui dietro c’è un Caravaggio…”, capii subito che qualcosa si stava rompendo. La frase mi arrivo estranea e incapace di generare rimandi; le voci iniziarono a mescolarsi, i significati ad accavallarsi: sentivo tutto, ma non afferravo niente. Qualcuno gridò in fondo alla strada. Una rissa dietro l’angolo: vetri rotti, urla, passi che si allontanavano. Mi sfiorò una ragazza con una sciarpa rossa. Sentii il profumo. Gli occhi della gente. Il cuore che batteva forte e la paura si espandeva. “Voglio vivere” — pensai di colpo. Solo vivere. È lei che mi preme, è la vita che mi parla! Tutta la tensione sembrò placarsi come se l’aria attorno fosse diventata più leggera. Cobra mi porse una birra. Bevvi piano, poi veloce; ridemmo alzando le voci, e in quell’attimo il mondo si ricompose. Ma appunto: fu solo un attimo. Quella cosa — la stessa, sempre — si era rintanata nei miei vestiti. Occupava ogni mio respiro insinuando una frattura tra me e il mondo. Nello stesso modo in cui l’avvertivo tra me e me stesso. Non bastava ripetersi che fosse una bella serata, né convincersi che l’irrequietezza avesse a che fare con la vita. C’era un nodo che aveva invaso ogni fibra del mio essere. E che ora iniziava a puzzare di disperazione.
Entrammo nell’ennesimo locale, uno che eravamo soliti frequentare. Ampio, con soffitti alti e luci basse, tagliate qua e là da riflessi dorati. Sul primo piano si apriva un lungo bancone in legno scuro, pieno di liquori disposti in file ordinate: whisky, gin, vermut, rum, vodka. Intorno, tavolini bassi e sedute in pelle nera. Ci sedemmo e ordinammo un bicchiere. La musica veniva da sopra, troppo lontana per distrarre davvero, abbastanza vicina da infastidire. Con Lorenzo — il Cobra — ci conosciamo da sempre. Abbiamo riso, ci siamo mandati affanculo, presi a pugni, abbracciati: tutto quello che si può fare senza ammazzarsi. Mi guarda appena e dice:
«Che hai Valè?» La voce grave.
«Non lo so» dico.
«Donne? Casa? Il lavoro?»
«No. Quello è a posto. Ma ho questa foga nel petto. Un desiderio storto»
«Un desiderio di che?»
«Di qualcosa. Di attrito. …Di vivere…» Annuisce. Beve. «Anche prima, sulla moto — continuo — correvo senza motivo. Senza strada. Come se da qualche parte ci fosse un muro, e io dovessi vederlo solo all’ultimo.»
Lorenzo mi fissò per qualche instante, gli occhi socchiusi dall’ennesima sigaretta corretta. Poi, senza distogliere lo sguardo disse con un mezzo sorriso: «Che c’è? Hai voglia di morire stasera?» Se la rideva, il bastardo.
Uno, due, tre. Quattro secondi: assaporai la scoperta in silenzio, come se fosse veleno. La sentivo legarsi ad immagini e sensazioni. Poi esplosi:
«Sì, cazzo! Sì!” Digrignavo i denti, mi mangiavo le parole: “Ho una voglia bastarda di morire! Di morire! Voglio donne, sì, e situazioni, disastri, pugni in faccia e parole gridate per strada, e pianti, e amori che si spaccano! Voglio muri, voglio significati! Ferite vere! Bottiglie in frantumi e urla contro il cielo! Perché vivere così, vivere come ora — non è vivere, ma morire a rate!»
Lo presi dalla giacca.
«Non li senti anche tu, quei muri che ti urlano addosso? Eh, Lorè? Non li senti?

Mi ritrovai a riflettere su ciò che avevo detto. “Voglio morire” — ricordo che pensai proprio così — si discosta da “cessare di esistere”. A determinare la frattura non era il verbo in sé ma il sistema di immagini che ciascuna espressione attivava. Nella prima il peso ricadeva tutto su quel volere— una volontà che non si limitava a constatare ma che esigeva, spingeva, scalpitava.
Sì—pensai—anche quando non si manifesta, il subconscio ha un suo linguaggio: insinuandosi nei ritmi, nelle scelte, nei ricalchi corporei che accompagnano la parola. Nelle mie la volontà dominava. Era brutale, cieca, feroce. E soprattutto incapace di legarsi a una direzione. Bevevo e capivo che quando è così, quando la volontà è pura intensità, non può che legarsi all’unica cosa in grado di tenergli testa: la morte. Non per amore della fine, ma perché solo questa ha la forza sufficiente di sopportare tale carica. Solo la morte regge lo sguardo. Problema e risposta devono avere lo stesso peso, lo stesso odore, lo stesso fottuto grado di violenza. Tutto il resto sembrava troppo debole, distante. Raccontai a Lorenzo di una cosa letta chissà dove, credo in un libro di psicoanalisi. Diceva che l’uomo è attraversato da due forze: Eros e Thanatos. Una spinge alla costruzione. L’altra sottrae e punta alla fine. Non si danno il cambio, si azzannano. Quando Eros crolla e non sa più dove andare, Thanatos prende spazio. Thanatos è questo: spinta cieca verso l’inorganico, bisogno di tornare al punto zero. E con il bicchiere ancora in mano, mentre esclamavo che volevo vivere e morire allo stesso tempo, capii che quella forza mi stava abitando.
«Brindiamo alla vita, allora» disse Lorenzo alzando il suo di bicchiere.
Eppure, aver trovato un nome — che forse, chissà, aveva a che fare col disagio che mi abitava non risolveva nulla. Il problema era rimasto lì. Quella foga, quel prurito dell’anima non conosceva forme, direzioni e meno che mai un dannato perché.
Presi allora a ripensare agli anni passati: avevamo cambiato zone, bar, facce. Ma la storia era sempre quella. Ci spostavamo da un locale all’altro come se dovesse succedere qualcosa: una svolta, una scena, una frase che ci facesse restare. Avanti e indietro. In silenzio. Mi accorgevo così, che a ben vedere, negli ultimi anni non fosse successo granché; che una volta iniziato il lavoro ero stato incapace di generare grandi ricordi. Il primo giorno. Una promozione. Poco più. Tutto avevo consumato e dimenticato. Delle persone erano passate, delle cose erano accadute ma il mio rapporto con il mondo era stato segnato da una cortese e brutale indifferenza. Una distanza educata, quasi civile. Nulla mi era stato davvero a cuore. Niente mi aveva toccato.
Quando ripresi a parlare l’amarezza aveva già deciso per me: “Cento euro, una cena, il vino, due amari, cinque whiskey, una donna e una rissa. Questo sarebbe vivere?”
Lorenzo non si scompose. Scosse appena il capo e parlò tranquillamente, come si fa con gli idioti: «A Vale’, ma la fai finita? È sempre stato così.» Poi tacque. Credo si aspettasse una reazione, un insulto. Io però aspettavo.
«Non son cambiate le condizioni materiali — riprese— al massimo è diverso il modo in cui le sentiamo scivolarle sulla pelle. Lo fissavo in silenzio, come si fa con chi ti deve aiutare e non può.«E forse- disse- non è successo niente di grave. Ci siamo solo lasciati andare. Come tanti altri. A pensarci bene, questo non è un problema. Giusto? Il tempo ci ha spinto in avanti come un pezzo di legno in acque neutre. Lontani dal blu scuro che ci piaceva tanto… e a dire la verità, sai… io quel blu — o come vogliamo chiamarlo — a volte lo sento ancora. Tu no?»
Non gli risposi. Forse scacciai subito quelle parole, convinto che ci dovesse essere un momento di rottura, qualcosa che segnasse un prima e un dopo. Continua a scavare, a frugare negli anni passati tra quei discorsi lasciati a metà. Poi, all’improvviso, riemerse il periodo in cui ero solito dire — lo ripetevo a tutti — che la vita, in fondo, fosse solo lotta. Solo lotta. Così dicevo. Così sentivo. Così vivevo.
Non ricordai subito le motivazioni, ma mi sfiorò il calore che un tempo motivava quelle parole. Le stesse che ora mi sembravano lontane e sconosciute. Eppure — Cristo Dio!— era passata solo mezz’ora da quando avevo detto a Lorenzo che volevo ferite autentiche. Significati veri. Muri da abbattere, anche con la fronte se necessario. Avevo parlato con sincerità, e lo sapevo. Ma in quel momento, proprio mentre avevo bisogno — mentre sentivo l’urgenza di rifletterci, ogni ricordo scattava, saltava, rimbalza da una parete all’altra della testa, bang, pang, clang. I pensieri si accendevano — si rincorrevano — poi morivano. Brevi lampi, scintille — e poi via. Ma sotto... sotto qualcosa restava. Qualcosa restava! Intuivo — lo giuro! — intuivo, con una chiarezza che non avevo mai avuto — mai! — in tutta la notte, in nessuna notte, che quello- proprio quello- era il cazzo di tassello mancante. Il maledetto infame perfetto introvabile tassello mancante!
Sì! Sì, ora ricordavo! Sì, certo, certo. La lotta. La lotta! OVVIO. LOTTA. SOLO LOTTA. Non c’era nient’altro – niente- che contasse per me. La vita era solo lotta. Lo sentivo, chiaramente. Ora ricordavo benissimo quei momenti — inevitabili, furiosi, chiari — in cui non c’era spazio, non c’era margine, né per sognare né per lasciarsi andare. Attimi in cui non esisteva distanza tra il sentire e l’agire. Solo urgenza. Solo vita. Dove tutto- tutto! si riempiva di senso e di guerra. E ogni cosa si sporcava di amore. Di quel bastardo dell’amore.
Sì. Sì. Sì! La vita è lotta e io che lo avevo saputo, io che lo avevo gridato, me ne ero dimenticato! Avevo smesso di cercare, senza neanche saperlo. Desideravo le cascate. Libere. Voraci. Rapaci di vita. Non le acque calme. Non quelle che chiamiamo emozioni. Volevo tornare in quello spazio dove una melodia si faceva pugnale. Una pagina significato. Un’ingiustizia azione. Lì dove i pianti non venivano, cadevano. Come pioggia. E allagavano tutto. E lì la vita ti obbligava. Ti stringeva. Ti costringeva alla comunione. Senza dogmi, senza l’io. Senza sopraffazioni. Solo libertà e sporcizia. Quella era una febbre dell’essere. Totale. Brutale. Un furore primordiale. Come quello di un neonato. Dove la sconfitta — la fragilità — sapevano di grido. E di potenza. E il dolore — anche lui — si macchiava di possibilità.

Ecco cosa avevo perso. Sapevo ora chi fosse il colpevole: me stesso. Nessun alibi. Solo io, e la mia capacità di dimenticarmi. Senza rumore e un passo alla volta avevo fatto a pezzi ogni canale tra me e l’interiorità, ogni passaggio attraverso cui la vita si faceva viva. Continuavo a ripetermi le mie conclusioni: “La vita, dunque, è lotta”. Avevo finalmente ricordato. Avevo capito. E forse era ora di tornarsene a casa.
Ma in realtà, più andavo avanti in queste elucubrazioni più comprendevo quanto, anche questa volta, mi stessi mentendo. Io non ero quello. Non più. E forse era un bene. O forse anche questa era l’ennesima scusa? Ogni bugia pareva coprirne un’altra. E tutte quelle fregnacce pensate avevano già perso la forza di una rivelazione. La verità? Credo che cercassi solo un modo elegante per sentirmi vivo. Vivo senza dover dire che ero infelice. Che tutta la mia vita funzionava mentre io mi stavo disinnescando. Piano. Senza rumore. Senza un grido. Erano fregnacce: intensità travestite da sistema filosofico. Frasi inutili, di chi non sa spiegare cosa sia successo. Di chi cerca nel passato un rifugio. Ma il problema era adesso: io ero lì, con la faccia gonfia, gli occhi rossi e la testa piena di alcol. Non c’erano colpe. Solo una deriva lenta e impercettibile. E ora — che la sentivo tutta insieme, nel corpo, nella testa, nel suono dei bicchieri, nei discorsi che non mordevano più — non sapevo come tornare indietro.
Corsi fuori dal locale in preda all’agitazione e mi trovai davanti a un muro. Lo osservai: l’intonaco era spellato, ocra e ruggine, come pelle arsa dal tempo. Al centro un baldacchino in ferro appeso sopra un ovale vuoto. Un santino scomparso. Un volto scordato. Solo quella forma svuotata, e sotto, una lanterna, che continuava ad emanare della luce giallastra.
Era tutto perfetto in un certo modo. La crepa che scendeva di traverso, la simmetria spezzata delle finestre, i graffi del vento sul viso del palazzo. Perfetto eppure morto. In me non c’era senso, simbolo, calore o piacere. Solo quel dirompente disagio. I colori, le linee, la simmetria rotta, persino quella luce — tutto sembrava voler comunicare. Ma io non riuscivo a formare significati.
Era come star davanti a uno straniero che ti urla in faccia: ne senti il tono, la forza, la presenza… ma non capisci. E quella delicatezza, anziché salvarmi, mi faceva impazzire. Mi tormentava. Mi snervava. Cominciavo ad odiarla.
Ecco lì che tutto ciò che avevo accumulato nel corso della notte iniziava a manifestarsi. Il legame tra me e le cose: spezzato. Le frasi, persino le mie, mi cadevano addosso come insigne spente in mezzo alla tempesta. Suoni vuoti. Gusci rotti. Il mondo non era più mondo, ma pressione e assenza allo stesso tempo. Le superfici vibravano senza ragione, i volti si storcevano. Avevo il corpo teso, contratto in zone che non sapevo nemmeno di possedere. Non ero più centro ma periferia: troppo dentro per fuggire, troppo fuori per orientarmi. Urlare, sbattere la testa contro un muro, spaccare bicchieri, finestre, la faccia di qualcuno. Strapparmi tutto: i capelli, la pelle, la maschera. Le persone, le persone le odiavo. Erano d’intralcio. Erano rumore. I palazzi. Il muro, tutto mi opprimeva e pareva cadermi addosso. Il cielo era una gabbia maledetta. Io, una nullità. La realtà mi schiacciava e si prendeva gioco di me. Volevo frantumarla. Farle fare la fine che sapevo, prima o poi, mi avrebbe imposto. Rompere tutto. Trovare un varco.
Mi si avvicinarono dei ragazzi. Troppo vicini. Al primo — tac — una capocciata sul naso. Al secondo, un pugno con tutta la forza che avevo. Caddi sopra di lui e ogni cosa cominciò a girare, sopra, sotto, intorno, e io con loro. Le botte arrivavano e partivano, come macchine in un parcheggio: sulle gambe, nei fianchi, nella testa, nella schiena, credo. Sentivo il pavimento, o una serranda, forse una scarpa di questi poveri malcapitati. Le urla — le mie, le loro — indistinguibili. So che provai del dolore, ma non so dire se fosse per i colpi ricevuti.
Poi mi sentii sollevare da terra. Mi ritrovai su una panchina. O qualcosa che la ricordava. Cobra mi porse una canna. Restò così, in silenzio, con una mano tesa e l’altra nel cappotto, sempre quello lungo e scuro. Disse: «Valè, sei tutto storto stasera. Fatte due tiri. Poi quando vuoi andiamo via.» Io decisi di restare. Rientrai nel locale e salii al piano superiore: sulle pareti si alternavano ombre e luci rosse, i rumori erano assordanti e le persone sembravano muoversi. Mi sedetti su una poltrona e vidi Lorenzo che parlava con una donna bellissima. Riccia, di carnagione scura. Mi sembrò di conoscerla. C’era qualcosa in lei. Sempre in bilico, come se potesse cadere da un momento all’altro. E quegli occhi — dolci, sensuali, pieni di una richiesta muta, di un aiuto che non sapeva come uscire. Seppi, in quell’attimo, di essere fottuto.
Il cameriere venne e posò una bottiglia rossa sul tavolo. Noi eravamo tutti lì. Guardai Cobra: fissava la bottiglia. Si accorse che lo stavo osservando e ci salutammo, come eravamo soliti fare.
Uscendo pensai che tutti dovrebbero avere un cappotto come il suo — lungo, cattivo, fratello. E che nessuno dovrebbe perdere quello che avevo perso io.
La vita poi mi vinse: presi la moto, girai la curva, centrai il primo muro.

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